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Responsabilità editoriale di ASviS
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Circa il 30% dell’anidride carbonica (CO₂) emessa dalle attività umane viene assorbita dagli ecosistemi terrestri. Questo processo di stoccaggio del carbonio svolge una funzione cruciale nel mitigare gli effetti della crisi climatica, in questo modo viene infatti rallentato l’accumulo di gas serra in atmosfera. Grazie a un’ampia e consolidata letteratura scientifica, conosciamo sempre di più il modo in cui i servizi ecosistemici interagiscono per tutelare la nostra salute e l’equilibrio naturale. Tuttavia restano aperte delle questioni, per esempio: dove finisce il carbonio assorbito? E inoltre: quanto tempo vi rimane?
Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Science”, dal titolo “Recent gains in global terrestrial carbon stocks are mostly stored in nonliving pools”, prosegue questo filone di ricerca chiarendo che la maggior parte del carbonio sequestrato, circa il 97%, tra il 1992 e il 2019 non si trova nella biomassa vivente – come tronchi, foglie e radici –, ma è stata incorporata nella materia organica non vivente, cioè residui vegetali morti, suoli, legname, zone umide, dighe e persino discariche. In totale, si stima che in questo periodo siano state stoccate – o sequestrate – circa 35 gigatonnellate di carbonio.
Questi dati mettono in discussione le ipotesi secondo cui il sequestro della CO2 sarebbe avvenuto principalmente grazie ai tessuti viventi delle piante. Al contrario, lo studio rileva che è la materia organica non vivente a costituire il serbatoio di carbonio più grande che abbiamo a disposizione. Una riserva anche più stabile nel tempo e, in teoria, più affidabile e duratura.
Capire dove viene immagazzinato il carbonio è essenziale per valutare la durata dello stoccaggio: il carbonio accumulato in tessuti vegetali viventi, infatti, può essere rapidamente rilasciato in atmosfera a seguito di incendi, deforestazione e di altre motivi che spingono al decesso delle piante. In sostanza: quando il carbonio si stabilizza in serbatoi non viventi, come il suolo o i sedimenti, può rimanere intrappolato per decenni, se non secoli.
Si tratta di una conclusione che potrebbe avere profonde implicazioni per la strategia climatica globale. Se gran parte del carbonio sequestrato è legato a infrastrutture naturali o antropiche, come le dighe che rallentano la decomposizione della materia organica o le discariche che intrappolano residui vegetali, allora la gestione umana degli ecosistemi diventa un fattore ancor più decisivo per proteggere i carbon sink (pozzi di carbonio).
Inoltre, il fatto che molti dei serbatoi più stabili siano indirettamente legati ad attività umane – come la raccolta del legno per l’edilizia, la creazione di bacini artificiali o la gestione dei rifiuti – suggerisce che le politiche ambientali e di pianificazione territoriale possono aumentarne o ridurne l’efficienza nella lotta contro il cambiamento climatico.
Questi risultati aprono una nuova prospettiva sulla persistenza del carbonio sequestrato e sulla necessità di migliorare non solo le tecnologie iperspettrali – per seguire la traccia di carbonio assorbito dall’acqua – e il monitoraggio satellitare delle foreste, ma anche la comprensione delle dinamiche nei suoli, delle acque interne e dei sistemi umani. Solo così sarà possibile progettare strategie efficaci e durature per rafforzare i pozzi di carbonio terrestri e rallentare la crisi climatica.
Facendo un discorso generale, relativo sia all’assorbimento svolto dalla materia organica vivente e non, l’articolo “Looking beyond the trees for carbon storage” (pubblicato sempre su Science) spiega quali sono le principali minacce all’attività di stoccaggio. Tra queste troviamo le ondate di calore che mettono sotto pressione gli ecosistemi vegetali, riducendo la capacità delle piante di svolgere la fotosintesi e quindi di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera fissandola nei terreni. Allo stesso tempo, la siccità compromette la disponibilità di acqua. A peggiorare il quadro intervengono gli incendi, spesso alimentati proprio da condizioni di siccità estrema, che distruggono la biomassa, trasformandola così in un fonte di emissione.
Questi fenomeni hanno avuto effetti drammatici sui servizi ecosistemici generati dalle foreste boreali (compresi quelli offerti dal terreno), come dimostrano gli episodi registrati in Siberia nel 2021 e in Canada nel 2023, dove le emissioni da combustione sono cresciute in modo esponenziale. Anche in Amazzonia gli incendi hanno compromesso la funzione di assorbimento di questa foresta tropicale. Così facendo, da una parte ci priviamo di uno scudo naturale per difenderci dall’aumento della temperatura e, dall’altra, intensifichiamo il potere devastante del riscaldamento globale.
Copertina: Unsplash
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